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Modello Americano vs modello Italiano: immobilismo vs fiducia nel futuro

Posted by on June 29, 2010 at 9:50 am.

Blog - TraslocoMi sembra evidente che mai come in questi mesi si parli insistentemente di innovazione in Italia. Sarà perché lo iato tra chi è avanti e chi insegue, come noi, si sta facendo incolmabile; sarà perché la crisi apre nuove strade a chi le sa trovare; sarà perché non siamo riusciti ancora a rovinare la parte più creativa del nostro DNA; sarà anche in minima parte per un libro che sia chiama L’Italia che innova: ma mai come in questi mesi si è visto un fiorire di iniziative, barcamp, competition, e mai come ultimamente si è parlato di venture capital, di business planning, di scouting. Sembra proprio ci sia tanto entusiasmo. Ma c’è davvero?

Ora, innovare significa cambiare in meglio, e se c’è un posto nel quale change è divenuta la parola magica, questo è l’America. Tralasciando quanto di vero ci sia nel change di Obama, è evidente che la sua campagna elettorale ha dato un terrificante impulso all’innovazione; che il suo messaggio ha costituito benzina (facciamo benzina … verde) per chi ritiene la cultura americana quella destinata a guidare il mondo; che la sua comunicazione, sia per contenuti che per mezzi, ha rivoluzionato un sistema che non sarà mai più lo stesso. Obama ha tanti meriti riguardo a ciò, e lo dice uno che ne giudica estremamente negativamente i primi mesi di presidenza. Ma quello che mi interessa qui non è parlare di Obama, ma di cosa significhi la spinta ad innovare che arriva dagli USA, per noi italiani. Mi sembra acclarato che tutti coloro che parlano di innovazione si rifacciano, volenti o nolenti, consapevoli e non, di sinistra e non, al modello statunitense. Non c’è solo la Silicon Valley, che pure è il centro del mondo dell’innovazione ed un vero mito per chi si avvicina a questo universo: anche l’area di Boston e recentemente anche la mia meravigliosa New York stanno sperimentando attrazione per capitali, idee, persone geniali e dedicate. Noi qui in Italia arranchiamo fra uno scandalo e l’altro, una distrazione di fondi promessi alla banda larga e una classe dirigente che in parte non capisce la necessità di implementare la rete e in parte la capisce anche troppo bene, ed è per quello che non la implementa. Ma non è nemmeno la tirata qualunquista che mi interessa.

Quello che mi interessa qui è parlare di cultura, di atmosfera, di ambiente imprenditoriale; di abitudini, di dinamicità, di velocità; di scommessa, di sfida, di apertura mentale. Non ci sono leggi che possano favorire tutto ciò, purtroppo: anche ammesso che una nuova e brillante e competente classe dirigente (e non parlo solo di politica, ma di ovunque ci sia gerarchia e leadership, o meglio di dove la leadership dovrebbe svettare per merito) si sviluppasse miracolosamente per abiogenesi, resterebbe un Paese che, anche dopo il miracolo, rimane sempre attaccato al passato, arretrato, incollato ai privilegi. Sto ovviamente generalizzando, e ognuno che legge si sentirà parte di altro: ognuno vorrà pensare di sé stesso di essere innovativo, fresco, frizzante, scattante, pronto a cogliere le occasioni e a ricominciare.

Sarebbe bello se fosse così, e magari ognuno dei pochi lettori di questa riflessione lo è per davvero. Ma hey, guardatevi intorno. Questa è una società impregnata nell’immobilismo; è una cultura conservatrice come nessun’altra; è una comunità alla quale manca il rimanente 95% di senso civico che necessiterebbe. Questa è una società in cui si ha paura a parlare di soldi, ma se ne vuole sempre di più; in cui si fa finta di non vedere chi non rispetta la legge perché siamo i primi a non rispettarla; in cui crediamo che mai nessuno ci verrà a chiedere il conto per quanto stiamo facendo. E quando parliamo di importare il modello americano, e chi mi conosce sa quanto io sarei d’accordo nel farlo, forse dimentichiamo che un modello necessita di una cultura, di un substrato, di valori condivisi, per funzionare adeguatamente.

Cosa significa fare impresa? Vuol dire sacrificio, pazienza, visione, coraggio, caparbietà, genialità, fiducia, ingenuità, forza.
Non si fa impresa se non si sa come rialzarsi dopo una caduta, come credere quando nessuno crede, come considerare opportunità qualcosa che altri considerano impedimento. Non si è imprenditori se non si scommette su sé stessi, se non si investe ogni goccia di sudore quando si è finito il capitale, se non si rovescia il tavolo avendo fiducia che il prossimo passo ci porterà al traguardo anche se non lo si vede in lontananza.
Innovare, creare, vuol dire impegno e apertura mentale.

traslocoMa siamo sinceri: quanto di tutto ciò è insito nella cultura del nostro Paese?
Questo è un meraviglioso, desolante e provincialissimo posto nel quale si lascia tardi la casa dei genitori; in cui ci si sposa tardi, e si preferisce convivere cornificandosi piuttosto che chiudere e ricominciare; in cui un trasloco è più vicino ad una tragedia che ad una normale attività umana; in cui per andare da un punto all’altro si percorre un arzigogolo; in cui ci si vergogna a dire o a chiedere quanto si guadagna; in cui scendere uno scalino della scala sociale è considerato motivo per un suicidio; in cui il fallimento è un’onta e non una possibilità di imparare; in cui essere acquisiti non è motivo di orgoglio ma di scorno; in cui la legge si interpreta ed il vigile che ti multa in doppia fila è sempre dalla parte del torto, per non parlare di quel pirla che protesta perché gli abbiamo impedito di rispettare il suo impegno chiudendolo con la nostra vettura; in cui si fanno sempre meno figli, e sempre più tardi; in cui ogni diritto è sacro, ogni privilegio ci spetta, ogni comodità è dovuta; in cui ogni cambiamento ci puzza perché chissà cosa dovremo fare in più, in cui il più lento detta la velocità degli altri, mai il più rapido; in cui i diritti vengono sempre prima dei doveri, quando questi vengono riconosciuti e ciò non avviene spesso; in cui sono gli altri a doversi abituare, a dover cambiare, a dover chiedere scusa; in cui la variabile indipendente siamo sempre noi e i nostri bisogni, più presunti che veri; in cui l’elasticità viene definita precariato e messa alla gogna, come se l’immobilismo fosse la pietra miliare attorno alla quale fingere che l’evoluzione non esiste; in cui per molti un contratto è carta straccia e chi ne ha uno già sa di doversi preoccupare di capire a quanto dovrà rinunciare rispetto a quanto pattuito.

Questa è una repubblica fondata sul lamento, sull’accomodamento, sull’incertezza del diritto. Qui siamo più furbetti, e non ci rendiamo conto che diventiamo bulli; qui facciamo gli indignati e non ci accorgiamo di essere presuntuosi. Se pensate che questo valga solo per il mondo del lavoro, vi sbagliate: queste cose accadono nella vita di tutti noi, ogni giorno. E siamo talmente abituati, talmente rassegnati, talmente disperati che non ce ne rendiamo nemmeno conto, e d’altronde che dovremmo fare, urlare al vento ogni giorno della nostra vita come monatti impazziti e provocarci un’ulcera ogni settimana?.

Nel mondo americano tutto è diverso, e non certo per legge. Ho visto vecchietti di 70 anni ricominciare da capo a testa alta; ho visto vedove prendersi cura del parco vicino casa, gratis, per il piacere di stare in un posto pulito senza attendere che a tutto debba pensare il pubblico servizio. Ho visto ragazzi cadere e rialzarsi, ho visto uomini e donne accogliere il cambiamento con l’atteggiamento che noi chiamiamo ingenuità e loro chiamano fiducia. Ho visto l’orgoglio di far parte di una comunità, nonostante gli altri non capiscano e li prendano in giro.

matrimonio all’americanaPensate al matrimonio, ad esempio. Quanto ci fanno ridere tutti i convenevoli americani sul matrimonio? Lui che si inginocchia e dà l’anello, lei che piange e salta e dice si. Da quel momento sono fidanzati, poi le prove della cerimonia, la cena del giorno prima, l’importanza della maid of honour e del best man, il padre che accompagna la sposa che non va vista dallo sposo prima delle nozze, le promesse di matrimonio lette con le lacrime agli occhi, il prete che concede il bacio … ci fanno ridere, anche perché poi più di un matrimonio su 2 si sfascia. Ma pensiamo al fatto che poi ricominciano, ci credono ancora, si risposano da capo, una, due, tre volte … tutte queste sono azioni che impegnano, che richiedono fiducia, apertura, credito. Rinascono dalle loro stesse ceneri, continuano a credere, non si incattiviscono nei confronti della vita. Non accettano bugie, e non passa loro per la testa che ciò possa sembrare ingenuo: perché per loro se menti una volta allora puoi mentire per sempre.

Vi immaginate una cosa così qui da noi? Qui ci consideriamo più scafati, più cinici, più realisti: noi non ci imbarcheremmo mai in tutta questa manfrina, per poi avere più del 50% di possibilità di separarci (e poi per divorziare ci mettiamo anni, mica come loro che quando chiudono un rapporto lo chiudono in fretta senza trascinare la sofferenza a lungo). Pensate che stia parlando ancora del matrimonio? E invece parlo di cultura in generale, di società. Se non ci prendiamo impegni, se non scommettiamo noi stessi, se non viviamo con apertura mentale … se insegniamo ai nostri figli che il posto fisso è il loro obiettivo, e non ad investire su loro stessi e a credere nelle loro possibilità … se tutti noi ci comportiamo così, da dove pensiamo che dovrebbe arrivare questa nuova classe dirigente che innovi, apra, crei, cambi le cose per cui ci lamentiamo? Tutto l’approccio alla vita quotidiana è qui rivolto verso il passato, e quei pochi che non l’accettano fanno una fatica sempre maggiore: oggi quello che spaventa è la varietà sociale, culturale, economica, anagrafica e di provenienza di coloro che vogliono andare via.

Qualche giorno fa David Cameron ha detto schiettamente ai suoi connazionali che la Gran Bretagna ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, e che ci si deve abituare a tornare indietro di un po’ per qualche tempo.

Il nostro problema non è che non abbiamo leader disposti a dichiararlo con passione: è che non abbiamo cittadini disposti ad ascoltarlo con onestà, e senza i secondi è impossibile che escano fuori i primi. Abbiamo un disperatissimo e imminente bisogno di guardare al futuro con coraggio, accettare di faticare di più, aprire la strada ai migliori e adoperarci per facilitare i nostri giovani, prima di rovinarli del tutto – e temo non manchi molto. Forse la prima innovazione, ma anche la più difficile, dovrebbe essere questa. Purtroppo non c’è venture capital al mondo che ci possa aiutare a portarla a compimento: deve partire da noi, che siamo a pensarci bene il primo finanziatore del bene più importante del quale abbiamo bisogno, la capacità di sognare in grande.

Fonte: Sideleaders.it

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